Association of Art & Science Rome, ITALY
Prima parte
Il pensiero antico: l’àpeiron; l’Uno e la Diade; la quintessenza; il fuoco nero
Una premessa
Se in questa serie di articoli sul tema dell’energia -che ormai si protrae da cinque quadrimestri e che si concluderà sul prossimo numero di questa rivista- mi fossi limitato ad esporre un resoconto dei fatti fondamentali e delle teorie, vecchie e nuove, inerenti l’argomento in questione, probabilmente non avrebbe avuto granché senso darsi la pena di scriverla. Sono così tanti, infatti, i testi divulgativi in circolazione (senza contare le varie fonti alternative facilmente accessibili), che una ulteriore semplice disamina, nel migliore dei casi, avrebbe aggiunto futili parole al già detto, aggravando ulteriormente lo stato di inquinamento da eccesso di informazione di cui è vittima il nostro tempo e, nel peggiore, contribuito al folle sperpero che, quotidianamente, questa società fa, di carta e - ironia della sorte!- proprio di energia.
L’unica giustificazione che mi è possibile quindi addurre, a difesa dei precedenti e del presente lavoro –con la speranza che il lettore attento possa condividere almeno in parte questa opinione- riguarda il tentativo, che in essi viene costantemente portato avanti, di individuare, in un tessuto culturale spesso fin troppo ipostatizzato dagli ipse dixit propugnati dalla manualistica vigente, i punti deboli delle teorie in auge e gli spiragli di nuove correnti concettuali che potrebbero prenderne il posto in un prossimo futuro; nonché quello di riuscire a fondere, in un unico crogiolo di comprensione semantica , idee partorite in contesti culturali spesso fin troppo distanti nel tempo o appartenenti a logiche di pensiero affatto dissimili.
Vale la pena anche di specificare, a questo punto, quanto, chi scrive in primis, si renda conto delle tediose trappole generalmente disseminate lungo quest’ultima via -quella del sincretismo, intendo- e di come, di conseguenza, occorra procedere cauti nell’operare traslazioni di significato e nel confrontare concetti annidati in strutture linguistiche spesso facenti capo a differenti matrici di pensiero ed aventi diversi raggi semantici. Se, usando tutte le accortezze possibili, ho deciso di correre tale rischio è perché sono convinto che i vantaggi che un tale metodo può apportare all’ampliamento, sia in larghezza che in profondità, della conoscenza, possano ben giustificare il pericolo di incappare in clamorose sviste concettuali.
Credo cioè che, come si suol dire, il gioco valga la candela!
Concludo questa necessaria premessa con una breve anticipazione degli argomenti che saranno trattati nella prima e seconda parte di questo ultimo articolo, di modo che, man mano che si procede nella lettura, si possa cominciare ad intuire come le varie parti andranno a calettarsi nel tutto e possa risultare ben evidente qual è il filo conduttore attorno a cui volgono gli epicicli argomentativi.
Dunque, inizierò con l’esporre alcune idee -che ritengo pertinenti al tema trattato- di tre filosofi vissuti nell’antica Grecia: Anassimandro -un presocratico della cui opera sono rimasti pochi frammenti, ma il cui nucleo speculativo ci è comunque pervenuto ad opera di pensatori posteriori- ed i due giganti della filosofia antica occidentale: Platone ed Aristotele.
Proseguirò sommariamente accennando ad un pensatore mediorientale di epoca medievale, fino a giungere al nascere vero e proprio della cosmologia scientifica del ‘900, limitandomi per lo più a prendere in esame le implicazioni in riguardo al concetto di energia che il nuovo approccio di tipo fisico-matematico apporta. E, a questo punto, dopo aver reso chiaro cosa sono, fondamentalmente, il modello standard e la teoria del Big Bang che esso implica, arriverò ad illustrare alcune delle alternative teoriche proposte nel corso degli ultimi decenni ed in particolare una di esse che ritengo molto interessante, seppure ancora concettualmente incompleta, proposta non molto tempo fa da Ilya Prigogine.
Reputo importante anche la sottile critica che muoverò a Mario Ageno -a cui ho fatto riferimento in uno dei precedenti articoli- quando si estenda all’ambito cosmologico una sua particolare conclusione riguardante la già tanto menzionata entropia.
Ci si renderà infine conto, nella conclusione, di come l’eclettismo espositivo, nella misura in cui avrà permesso di riguardare vecchi problemi sotto nuovi punti di vista, possa riuscire a creare nuovi nessi e fertili ampliamenti semantici utili allo scopo di penetrare sempre più a fondo nell’intima natura delle cose.
1. Una prima, significativa ipotesi cosmologica: l’ àpeiron di Anassimandro
(…) principio degli esseri è l’àpeiron (…) da dove infatti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del Tempo.
Di Anassimandro, allievo di Talete (fondatore, quest’ultimo, della cosiddetta scuola di Mileto) e la cui attività filosofica è databile intorno alla metà del VI secolo a.C., ci è pervenuto poco e niente e, per giunta, di seconda mano. Comunque, essendo la dossografia antica in proposito, esente da una qualsivoglia contraddizione, non è stato difficile ricostruire, con buona approssimazione, quello che doveva essere il nucleo concettuale del suo pensiero.
Mi limiterò ad esporre, nella maniera più chiara e sintetica possibile, solo ciò che, del suo lascito filosofico, è pertinente al tema del presente articolo, e che, alla luce delle nostre attuali conoscenze, coincide con quanto, del suo pensiero, abbia un valore che non sia di esclusivo interesse storiografico.
I meriti, infatti, della speculazione filosofica anassimandrea sono, essenzialmente due:
a) L’essere stato il primo -per quel che ci è dato sapere- ad aver introdotto il concetto di principio (arché), nel senso di fondamento ultimo della realtà, a partire dal quale tutto l’esistente possa trovare una giustificazione e, soprattutto, un punto fermo nell’incessante ed innegabile divenire fenomenologico.
In verità, già prima di lui, il già menzionato Talete aveva posto un elemento (l’acqua) ad origine di tutte le cose e, prima ancora, le varie cosmogonie (orfica ed esiodea) avevano ricondotto, nelle vesti del mito, il tutto ad un numero esiguo di entità antropomorfe originarie (ad esempio, Gaia e Caos). Ma è stato Anassimandro che, sentendo la necessità di coniare il termine arché, ha in qualche modo formalizzato questo nuova maniera pre-scientifica di rapportarsi alle origini, inaugurata dalla scuola jonica.
Da allora in poi (ma, come ho già accennato, anche nella precedente fase cosmogonica), la storia della filosofia e poi della scienza occidentali, saranno caratterizzate da tale tendenza all’ unificazione, da questo anelito a ricondurre il Caos della molteplicità sotto l’egida di uno o pochi principi immutabili.
Spiegare, aveva ieri e mantiene con rinnovato vigore oggi, il significato di unificare. Ho precisato con rinnovato vigore, poiché, da Einstein in poi, la ricerca di una Teoria del Tutto rimane il vero, unico, ambìto traguardo della fisica teorica.
Ma, dicevo, con Anassimandro (al quale, per inciso -sempre secondo le informazioni reperibili dalla dossografia antica- va attribuita la prima opera filosofica scritta della tradizione occidentale, dal titolo Della Natura) e col suo arché, assistiamo alla fondazione di questo metodo di fare scienza speculativa del quale siamo a tutti gli effetti eredi.
b) La fecondità e l’importanza concettuale di ciò che egli ha designato quale principio dell’essere dell’Universo (degli Universi, sarebbe più esatto dire…).
Qual è, dunque, questo principio che sta giocando un ruolo così importante nella presente esposizione?
L’ arché, per Anassimandro, è l’àpeiron!
Tale termine, non è traducibile, nella nostra ed in altre lingue moderne, in maniera univoca. E per questo, a scanso di equivoci, preferisco mantenere l’originale traslitterazione nell’alfabeto latino. In sostanza, significa assenza di limite, sia in senso spaziale che sostanziale: quindi, contemporaneamente illimitato ed indeterminato. E’ in questa accezione, che bisogna cominciare ad intenderlo.
L’àpeiron è principio fondamentale antecedente alle stesse categorie di spazio e di tempo: è illimitato in quanto un qualsiasi limite implicherebbe una alterità delimitante e quindi entrerebbe in conflitto col suo essere, per ipotesi, principio di tutte le cose; è indefinito ed indeterminato, in quanto è caos originario (mutuato dalla cosmogonia esiodea e scientificizzato?), materia informe dalla quale possano prendere forma le cose che sono.
Anassimandro -a detta di Aristotele- utilizza un termine preciso, in proposito: dice che l’àpeiron abbraccia tutte le cose, le circonda, le avvolge.
Nel prossimo paragrafo, quando accennerò alla dottrina protologica (dottrina, non scritta, dei principi) di Platone, si potrebbe, di primo acchito, avere l’impressione di una certa consonanza, fra l’àpeiron e l’Uno, ma, come avrò modo di far notare, tale riconducibilità è solo apparente. Anzi, preciserò quali sono, a mio avviso, le modifiche da apportare alla costruzione platonica affinché le due formulazioni in esame possano risultare di fatto equivalenti. Penso sia già chiaro che, dal punto di vista della attuale cosmologia naturalistica, chi scrive, ritenga più accettabile l’impostazione del filosofo di Mileto, seppure giudichi opportuno integrarla con la raffinata costruzione platonica, una volta che quest’ultima sia stata liberata dall’inutile piedistallo metafisico.
Ma, torniamo al Nostro: come opera -viene spontaneo, a tal punto,chiedersi- questo astratto àpeiron nel dar vita alle dinamiche dell’Universo?
Bene, tutto avviene a causa di un non meglio specificato eterno movimento, che non ha origine nel tempo poiché è esso stesso che crea il divenire degli enti. Esso produce separazione, o distacco, dei contrari, i quali, all’àpeiron dal quale sono stati generati, andranno, un giorno, a ricongiungersi per una questione di necessità, di giustizia, secondo l’ordine del tempo, come si evince dal frammento tramandatoci da Simplicio e che, non a caso, ho riportato all’inizio del presente paragrafo.
Bertrand Russel, nella sua sintetica Storia della filosofia occidentale, nell’unica pagina che riesce a dedicare ad Anassimandro, coglie bene l’essenza del suo pensiero, quando scrive:
Vi era (nella filosofia di Anassimandro, naturalmente) un eterno moto nel corso del quale si era prodotta l’origine dei mondi. I mondi non erano creati, come nella teologia ebrea o cristiana, ma si evolvevano.
Ed in effetti, la cosmologia di Anassimandro, in sintesi, predica la nascita del Cosmos - dell’Universo, per intenderci- dal Caos dell’àpeiron, caos nel quale l’Universo ritornerà per necessità , per rinascere e perire ancora una volta e poi ancora ed ancora, all’infinito (si tenga ben presente questo particolare!) , cosicché gli universi sono infiniti in numero e si susseguiranno senza un inizio e senza una fine, essendo finanche il tempo posteriore all’àpeiron!
Dunque, in questo mare di potenzialità senza forma, un eterno movimento (fluttuazioni nel vuoto quantico?) causa il distacco dei contrari, creando ordine (bassa entropia) ove regnava assoluto disordine (entropia massima). Un ordine che nasce, si evolve, soccombe al caos.
Per ricominciare…
Sarà chiaro nella seconda parte di questo articolo, quando esporrò un abbozzo di cosmologia di Ilya Prigogine, quanto l’aver insistito sul pensiero di Anassimandro non sia stato un mero artificio espositivo.
Penso sia anche il caso di accennare alle intuizioni evoluzionistiche di Anassimandro (quasi darwiniane!) relativamente all’origine della specie umana, che egli fa risalire ad un ambiente acquatico, quindi ai pesci. In particolare, da una testimonianza di Aezio ci risulta che: Anassimandro dice che i primi animali furono generati nell’umido, racchiusi in cortecce spinose, ma che, col crescere della loro età, essi approdavano nei luoghi più secchi e, quando tutto intorno si spezzava la loro corteccia, sopravvivevano per poco tempo.
E da una di Censorino, invece: Anassimandro di Mileto ritiene che dall’acqua e dalla terra riscaldate sorsero sia pesci che animali oltremodo simili ai pesci; che dentro questi animali si formarono uomini, i cui feti rimasero racchiusi all’interno fino alla pubertà; che allora finalmente, spezzate queste creature, vennero fuori uomini e donne, ormai capaci di nutrire se stessi.
Comprensibili ingenuità a parte, non si tratta forse di una incredibile anticipazione di idee naturalistiche che dovranno attendere più di venticinque secoli per tornare ad essere prese in considerazione?
2. L’Uno e la Diade: i principi delle dottrine non scritte di Platone
Platone (427-347 a.C.), il famoso filosofo greco, allievo di Socrate ed autore della Repubblica e di numerosi dialoghi filosofici, nonché fondatore dell’Accademia (dove, tre l’altro, si formò il non meno noto e carismatico Aristotele), nel suo percorso speculativo, continua a muoversi lungo la direttiva prima individuata, per cui spiegare equivale ad unificare. Ciò che tuttavia lo differenzia sostanzialmente da Anassimandro e dai filosofi ionici in genere - che egli definirà fisici o anche materialisti - è il livello di fondazione dei suoi principi, il quale trascende la realtà fisica e che può essere definito –con un termine che entrerà in uso solo ad opera degli allievi del Liceo di Aristotele- metafisico.
Prima di arrivare al nocciolo della questione, mi sembra opportuno riassumere in due righe la dottrina (essoterica, quindi scritta) delle Idee (o Forme) di Platone. Solo in funzione di essa, infatti trovano un senso le sue dottrine non scritte (esoteriche) le quali, nel presente lavoro, verranno reinterpretate in modo da poter costituire ancora un valido supporto concettuale ad idee prettamente scientifiche che verranno esposte in seguito.
Cosa sono, dunque, queste Forme o Idee?
Sono la causa formale di tutto quanto è esperibile attraverso i sensi. Un esempio classico: vi è una grande varietà di cavalli, uno diverso dall’altro: col mantello chiaro o scuro o pezzato, più o meno alti, più o meno robusti, più o meno veloci, più o meno giovani…, ma, evidentemente, c’è qualcosa che fa si che un cavallo sia un cavallo e non, mettiamo, un orso, un cane oppure una scimmia! Potremmo chiamare questa eterea proprietà caratterizzante cavalleità ed asserire che essa è ciò che fa dell’animale in questione un cavallo. Questa cavalleità Platone la chiama Eidos o Idea (Forma, quale effettivo significato, ma in italiano anche Idea, per pura traslitterazione) del cavallo e la pone in un primo livello (poiché scopriremo subito che ce n’è un altro ben più importante!) di realtà che trascende quella sensibile: il mondo delle Idee o Iperuranio.
Ma in questo magico luogo non si trovano solo le Forme degli enti sensibili, animati o inanimati che siano, ma anche e soprattutto di enti astratti quali possono esserlo il Bene, l’Amore, la Bellezza ecc. E mentre il mondo sensibile (e quanto ad esso inerisce) è affetto da una sorta di imperfezione endemica, è soggetto alle leggi del divenire ed è quindi corruttibile, nell’Iperuranio, invece, tutto è perfetto, eterno ed immutabile. Le caratteristiche fondamentali delle Eidos sono, infatti: intelligibilità (ovvero la proprietà in virtù della quale esse possono essere colte unicamente dall’intelletto), incorporeità, immutabilità e perseità (l’essere senza altri scopi se non per se stesso).
Stando a ciò che è scritto nei dialoghi e nella Repubblica, questa sarebbe l’essenza concettuale della filosofia platonica. Ma c’è qualcosa che non quadra; qualcosa di lasciato a metà! Infatti, come ho prima evidenziato, Platone, al pari dei suoi predecessori (sebbene abbia tirato in ballo la grossa novità del trascendente!), mira ad unificare ed è in questo senso che il suo lavoro è ancora incompleto. E verrà completato egregiamente negli agrapha dogmata, cioè nelle teorie non scritte.
Non credo sia necessario né opportuno (non avendo niente a che vedere, il filo conduttore del presente articolo, con questioni inerenti alla storiografia filosofica) prolungare il discorso nel cercare di chiarire all’eventuale lettore scettico, da quali fonti è venuta a galla questa teoria, visto che Platone non ne ha mai scritto, e quali sono i motivi (e vi garantisco che ce ne sono!), che lo avrebbero indotto a preferire la cosiddetta oralità dialettica. Senza contare che la bibliografia che riporterò alla fine della seconda parte potrà colmare abbondantemente la lacuna.
Qui basti conoscere il nucleo essenziale di tale dottrina e sapere che, le poche volte in cui egli stesso ha lasciato trapelare l’esistenza di qualcosa che potesse condurre al compimento del suo edificio filosofico, si è riferito ad essa come alle cose di maggior valore.
Queste cose di maggior valore, sono l’Uno e la Diade.
L’Uno e la Diade, si trovano ad un superiore livello di fondazione metafisica, rispetto alle Eidos, ed infatti servono a completare proprio quel processo di comprensione sinottica (secondo il quale, lo ripeto per la sua importanza in tutta questa disamina, spiegare = unificare) iniziato con l’introduzione delle stesse Idee. Infatti, se è vero che ogni Idea (o Forma) funge da matrice ontologica per un gran numero –potenzialmente infinito- di oggetti sensibili che ad essa ineriscono, è pur vero che essendocene tantissimi, di oggetti e concetti (probabilmente infiniti), anche il numero delle Idee corre il rischio di diventar tale e così, in quanto all’unificazione (pur senza dover invocare il recente lavoro di Cantor, per cui i due insiemi infiniti, entrambi numerabili, sono equipotenti), nulla di fatto! Senza contare che, essendo le Eidos tante, il concetto di numero, quindi di molteplicità, deve assolutamente precederle, cosicché esse non potrebbero comunque costituire il fondamento ultimo.
Così, Platone, si trova costretto a salire un ulteriore ed ultimo gradino nella scala metafisica ed a postulare, ad origine delle stesse Idee, l’Uno e –come pare l’abbia chiamata egli stesso- la Diade indefinita di grande e piccolo. Potrebbe, di primo acchito, sembrare che i principi posti a capo di questa colossale costruzione concettuale siano due, ma non è così, se non altro perché gli stessi numeri (quindi l’atto del numerare) che, per forza di cose dovevano essere antecedenti alle Idee, non possono assolutamente esserlo ai principi primi. Come pure i termini Uno e Diade, essendo definiti ad un livello superiore a quello dei numeri uno e due ordinari, non hanno niente in comune con essi. Se pure li evocano, ciò avviene in un senso che non va oltre la metafora. E’ più esatto dire, invece, come da tutti i commentatori viene fatto notare, che la protologia (teoria di principi) di Platone si basa su un concetto bipolare, peraltro comune nel pensiero greco.
Dunque, riepilogando, Uno e Diade indefinita, insieme, sono all’origine delle Idee, delle Forme. Precisamente l’Uno gioca il ruolo della causa formale (al livello più basso, ruolo, questo, esplicato dalle stesse Idee), mentre la Diade quello del substrato indefinito e plasmabile (rapportabile al ruolo che, al livello inferiore, è proprio della materia sensibile) su cui l’Uno agisce.
In tal modo tutto fila per il verso giusto: la spiegazione equivale ad una unificazione esemplare e l’intera teoria, per quanto apparentemente astrusa, è semplice, bella e, soprattutto, non autocontraddittoria.
Ma come funziona, la dinamica della creazione a partire dai principi?
Dalle parole di Proclo, il quale a sua volta cita Speusippo: per Platone, la diade indeterminata è l’autentico principium individuazionis, la causa del dispiegamento e della moltiplicazione, e perciò della generazione delle singole cose dall’Uno.
Tralasciamo la questione puramente assiologia (ossia inerente ai valori, molto cara a Platone, al punto da fargli identificare l’Uno col sommo Bene e la Diade col Male) che la teoria fa propria e concentriamoci piuttosto su una valutazione più spiccatamente scientifica dell’intuizione platonica, correndo consapevolmente tutti i rischi cui accennavo nella premessa.
Ignoriamo anche l’impostazione metafisica che Platone dà, in maniera imprescindibile, a tutta la sua costruzione; impostazione che se dal punto di vista di alcuni contemporanei (in primis Giovanni Reale, al quale la reinpretazione degli scritti platonici alla luce delle dottrine non scritte deve tantissimo!) rappresenta il più grande progresso rispetto alla precedente filosofia presocratica, sotto un ottica naturalistica, invece –che è anche quella di chi scrive- rappresenta piuttosto un regresso in quanto si avvale di concetti affatto estranei al punto di vista non trascendentale della scienza dei nostri giorni.
Fatto ciò, le intuizioni di Uno e Diade indefinita di grande e piccolo, si rivelano felici e fertili come quelle di àpeiron ed eterno movimento di Anassimandro! E si assomigliano, anche!
Supponiamo, infatti, che l’ Uno rappresenti allo stesso tempo l’essenza ed il perché di tutto l’esistente (epurato, in tal modo, da qualsiasi implicazione trascendentale nella accezione classica del termine) ed escluda anche la sola possibilità –la quale, se ci fosse, non potrebbe essere dall’ Uno deducibile, e quindi diverrebbe un alterità autocontraddittoria- del nulla assoluto. E che la Diade rappresenti, invece la dinamica, strettamente fisica per tramite della quale quella essenza si invera nella molteplicità degli enti e delle loro interazioni reciproche.
Tutto allora riacquisterebbe un nuovo senso, potenzialmente fecondo, dal punto di vista della ricerca teorica. Senza contare che, una opportuna ridefinizione di trascendenza e di livelli di fondazione metafisica farebbe restare pressoché inalterata nella forma la stupenda architettura speculativa platonica.
Non è questa, la sede giusta per sviluppare, in termini accettabili, una reinterpretazione del genere: basti l’accenno al fatto che la possibilità esiste e che l’apparato teorico per portarla avanti è maturo.
Un esempio? Platone definisce, come ho già evidenziato, la polarità servile (l’aggettivo è mio) della sua protologia come diade indefinita di grande e piccolo, cioè come causa di una molteplicità che si estende dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo; e noi, oggi, sappiamo, dalla teoria dei frattali, che alcune strutture dell’Universo (forse tutte) risultano essere invarianti per cambiamento di scala, quasi fossero regolate da un unico principio che compendia sotto di sé indifferentemente grande e piccolo!
La fisica come la conosciamo oggi affonda e sue radici nel concetto di energia e noi vogliamo capire cos’è quest’energia e da dove proviene. Quanto detto finora e quanto sarà detto nelle due pagine che completano questa prima parte, ci aiuterà notevolmente allo scopo.
3. La “quintessenza” aristotelica
L’argomento di questo breve paragrafo non giocherà un ruolo di fondamentale importanza, nelle conclusioni cui perverrò in seguito. Se ho ritenuto doveroso inserirlo in questo excursus delle idee che, a mio parere, hanno in qualche modo precorso i tempi ed ancora sono ben lungi dall’aver esaurito il loro potenziale concettuale, è per il semplice motivo che, il termine quintessenza, è ultimamente tornato in auge, a denotare una “impalpabile” forma d’energia che permeerebbe l’intero Universo e sarebbe responsabile di anomalie attualmente inspiegabili in funzione della materia e delle energie ordinarie riscontrabili fenomenologicamente.
Ma vediamo, dunque, cos’era originariamente questa quintessenza nella filosofia di Aristotele il quale è stato il primo ad introdurla terminologicamente. Egli, ingannato dai sensi più che i suoi predecessori, era convinto che la corruzione ed il mutamento riguardassero soltanto tutto ciò che era terrestre, mentre ciò che chiamava sfere celesti o mondo sopralunare pensava ne fosse immune. Essendo, poi, la materia sublunare costituita dai quattro elementi fondamentali acqua, aria, terra e fuoco, l’essenza del mondo celeste pensò dovesse essere di tutt’altra natura e chiamò questa diversa natura etere o quinta essenza.
Personalmente, ritengo che la spiegazione ultima di Aristotele (motore immobile compreso, a meno di non tentare in qualche modo di ridefinire il concetto) costituisca un grosso passo indietro, rispetto a quella di Platone ed a quelle dei presocratici, che egli chiamava, come il suo maestro, con termine quasi dispregiativo, fisici.
I meriti veri dello Stagirita, non sono comunque certo da ricercarsi in questo campo!
4. Una intuizione del pensiero ebraico medievale: il fuoco nero.
(…) Il fuoco elementare è tenebra; è infatti un fuoco che non riluce, uno specchio opaco, e rappresenta la forza di gevurah (potenza) (…) [Abulafia]
La tradizione giudaica è permeata dalla presenza di un fuoco nero quale “materia prima” –verrebbe da precisare - dell’atto di Creazione.
In particolare, secondo una originale esegesi del testo biblico, che Mosè Maimonide, verso la fine del XII secolo, azzardò in un passo delle sua Guida dei perplessi, il termine hošek (solitamente tradotto con tenebra), starebbe a significare, invece, fuoco elementare, una sorta di fuoco non luminoso, diafano. Interpretazione, questa, risultata in seguito congeniale soprattutto ad alcuni mistici e cabbalisti, fino a divenire luce di nerezza nello Zohar, dove, come afferma Giulio Busi nel suo pregevole Simboli del pensiero ebraico: (…) (essa) indica l’originario raggrumarsi di tutto il cosmo in uno spesso e nerissimo seme, prima di dispiegarsi nei colori della creazione.
Si tengano bene a mente soprattutto gli attributi spesso e nerissimo per quando affronterò alcuni aspetti, oltremodo interessanti, della cosmologia contemporanea.
Un’ultima riflessione per concludere questa prima parte.
A chi pensasse che una introduzione filosofica del tipo di quella appena presentata possa risultare esagerata, in un articolo di divulgazione scientifica sul significato dell’energia in ambito cosmologico, potrei rispondere con una frase di Aristotele (tratta dal Protrettico) che Giovanni Reale riporta alla fine del secondo volume della sua imponente Storia della filosofia antica:
Sia che si debba filosofare, sia che non si debba filosofare, bisogna filosofare (per deciderlo); ma poiché fra il filosofare ed il non filosofare non si dà altra scelta, si deve in ogni caso filosofare.
E, non si era soliti ripetere, in altri tempi, ipse dixit?
SCIENZA E CULTURA NEL MONDO http://www.duebinf.it/intro.html
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